La salute mentale dei curanti influenza la mortalità neurodegenerativa
DIANE RICHMOND & LORENZO L. BORGIA
NOTE
E NOTIZIE - Anno XV – 09 settembre 2017.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di
studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Le malattie neurodegenerative,
e particolarmente quelle che causano demenza, decorrono con una progressiva
perdita di abilità ed autonomia, rendendo necessario un aiuto materiale e
morale costante, e sempre più impegnativo col passare del tempo, da parte di
persone che consentono al paziente di eseguire con efficacia tutte le attività,
i compiti e gli adempimenti necessari per la sopravvivenza e per l’attuazione
di un piano terapeutico. Di fatto, tali prestatori di cure, o caregivers[1], con
il loro operato incidono significativamente sulla qualità e sulla durata
dell’esistenza di questi pazienti. È difficile, infatti, esagerare l’importanza
del caregiver: basti pensare che il
suo impegno riduce il numero delle ospedalizzazioni e, nei casi più gravi,
molti dei suoi atti di cura ordinari hanno efficacia salva-vita.
Nella realtà attuale delle
società del mondo occidentale, l’attività delle persone che quotidianamente
consentono la vita a coloro che non sono autosufficienti è implicitamente
prevista in ogni piano di cure mediche, ma nella maggior parte dei paesi non è
riconosciuta e tutelata dai sistemi legislativi, aggiungendo un elemento di stress alla già difficile condizione di
coloro che dedicano una parte della propria vita alle persone care ammalate[2].
Il problema della salute di
quanti prestano cure ad ammalati cronici è noto da lungo tempo, ma è stato poco
studiato scientificamente fino a tempi recenti. Mary S. Mittelman e colleghi,
tredici anni or sono, hanno pubblicato uno studio interessante su prestatori di
cure a pazienti affetti da malattia di Alzheimer[3]; da
allora, vari studi hanno affrontato gli aspetti principali di questo ruolo,
fino al documento pubblicato lo scorso anno dall’Alzheimer’s Association sulla diagnosi e cura dello stress nel caregiver[4].
Sandy J. Lwi, con Robert W.
Levenson e colleghi, ha studiato l’influenza della salute psichica di chi
accudisce pazienti affetti da malattia di Alzheimer sulla mortalità di questi
ultimi, indagando 176 diadi paziente-accudente.
(Lwi S. J., et al. Poor
caregiver mental health predicts mortality of patients with neurodegenerative
disease. Proceedings of the National
Academy of Sciences USA - Epub ahead of print doi:10.1073/pnas.1701597114,
2017).
La provenienza degli autori
è la seguente: Department of Psychology, University of California at Berkeley,
Berkeley, California (USA); Department of Psychology, University of Toronto,
Toronto, Ontario (Canada); Memory and Aging Center, University of California at
San Francisco, UCSF, San Francisco, California (USA).
[Il lavoro è stato presentato da Susan T. Fiske dell’Università di Princeton].
Lo studio della psicologia e
della psicopatologia dei curanti non è recente, e il suo inizio si può far
risalire ai seminari di ricerca della Tavistock Clinic di Londra, in cui lo
psichiatra Michael Balint, facendo la supervisione psicoterapeutica al lavoro
di quattordici medici internisti, creò un metodo per esaminare e valutare
psicologicamente l’approccio ai pazienti e ai loro problemi. Il lavoro, che
ebbe un notevole impatto sullo studio del rapporto medico-paziente, fu
presentato in un volume[5] che,
con le numerose traduzioni, nei decenni successivi sarebbe diventato un modello
di prassi in Europa e in alcune scuole mediche americane.
In Italia Franco Rinaldi,
negli anni Ottanta presidente della Società Italiana di Psichiatria, con Bruno
Giuliani, Cosimo Tridente, Giuseppe Perrella ed altri, applicò estesamente il
metodo ed i suoi principi creando anche varianti (medico, paziente e committente) che si rivelarono utili per l’esame
psicologico di professionisti diversi dal medico nel loro approccio al paziente
psichiatrico e neurologico cronico. Giuseppe Perrella ha impiegato il metodo
per studiare psicologia e psicopatologia di chirurghi, infermieri, terapisti
della riabilitazione, logopedisti, psicomotricisti, neuropsicologi e animatori
di comunità. L’esperienza induceva i prestatori di cura a conoscersi e a
cercare di comprendere e modificare gli aspetti della propria personalità in
grado di influire negativamente sul rapporto con il paziente, con effetti
positivi, spesso rilevanti ed evidenti, sull’esito del trattamento.
L’approccio, oltre ad impiegare i criteri interpretativi delle teorie
psicodinamiche, fenomenologiche e cognitive, integrava le nuove conoscenze
acquisite nell’ambito della medicina psicosomatica e della
psiconeuroimmunologia, introdotta da Rober Ader nel 1975 ed utile per
comprendere come il sistema immunitario e l’apparato endocrino potessero essere
influenzati dai processi cerebrali alla base della dimensione psicologica
dell’esperienza individuale e di relazione.
L’esperienza esistenziale di
chi presta cure a tempo pieno è fortemente improntata dalla condizione di
regime, da frustrazioni e sofferenze dei curati, e dal costante stato di
allerta per non commettere errori e far fronte agli imprevisti. L’attivazione
dei sistemi dello stress è
inevitabile; tuttavia, molte persone impegnate in questo tipo di assistenza
riferiscono aspetti positivi in termini di crescita personale. Uno studio di
Sara Sanders della University of Iowa, nel 2005 riportava che l’81% delle
persone che assistevano pazienti affetti da demenza riferiva tre tipi di
beneficio: 1) crescita spirituale con aumento della fede; 2) maturazione
psicologica individuale; 3) sensazione di competenza (maestria) e acquisizione
di abilità[6].
Il lavoro condotto da Lwi e
colleghi è parte di un filone di studi molto seguito, anche fuori dello stretto
ambito delle discipline neuroscientifiche, per l’impatto sociale che ha
l’accudimento[7] di pazienti anziani
cronici, e particolarmente quelli affetti da malattia di Alzheimer, sulle società
dei paesi più sviluppati. Negli USA sono stati messi a punto vari programmi per
supportare i parenti delle persone affette da demenza; tra questi, uno dei più
efficaci è stato realizzato dall’Università di New York, basandosi in gran
parte sul lavoro condotto alla fine degli anni Novanta dalla già menzionata psichiatra
epidemiologa Mary Mittelman: New York
University Caregiver Intervention (NYUCI)[8]. Il
protocollo NYUCI è attualmente applicato in cinque stati degli USA ed è stato
adattato nel 2013 dal gerontologo Joseph Gaugler per i figli di anziani non
autosufficienti, con l’effetto di ridurre al 37%, dal 66% del gruppo di
controllo, la percentuale dei genitori affidati ad istituti specializzati
nell’assistenza[9].
La cura di genitori o altri
parenti affetti da malattia di Alzheimer può presentare condizioni che variano
notevolmente in termini di impegno e di stress
in relazione allo stato del paziente, che può essere affetto o meno da altre
patologie che complicano il quadro dell’assistenza, e alla durata della sua
vita in condizioni di dipendenza. La maggior parte delle persone che presta
costantemente queste cure va incontro a problemi di salute mentale che, non
solo possono rappresentare un rischio notevole soprattutto per i meno giovani,
ma possono causare effetti negativi sulla persona assistita, come già rilevato
da tempo e studiato dal gruppo di Sandy Lwi, Robert Levenson e colleghi.
I ricercatori hanno indagato
il ruolo giocato dalla salute mentale del caregiver
sulla sopravvivenza di affetti da neurodegenerazione in 176 diadi,
normalizzando i dati raccolti rispetto ai fattori di rischio dei pazienti,
quali diagnosi, età, sesso, gravità della demenza ed altri aspetti della
psicologia e psicopatologia. Lo studio è stato realizzato – osservano gli autori
– come una ricerca posta all’intersezione tra psicologia, neuroscienze e
scienze mediche, allo scopo di analizzare ed evidenziare l’importanza
dell’equilibrio psichico di coloro che dedicano una parte considerevole della
propria vita a un congiunto affetto da demenza neurodegenerativa.
I risultati dello studio sono
semplici, lineari ed evidenti: ad una peggiore condizione di salute psichica
del caregiver corrispondeva una
maggiore mortalità del paziente.
Gli autori della nota ringraziano la dottoressa Isabella Floriani
per la correzione della bozza e invitano alla lettura delle recensioni di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito
(utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Il termine caregiver, che non ha un preciso equivalente semantico in un vocabolo italiano, è stato introdotto nella lingua inglese nel 1975 – secondo la commissione linguistica del Merriam Webster – per indicare colei o colui che direttamente si prende cura di persone cronicamente ammalate o di bambini.
[2] Un riconoscimento esiste negli Stati Uniti dal 1993, quando fu approvato durante la presidenza Clinton il Family and Medical Leave Act. Questo duro lavoro gratuito ha un valore economico che nel 2013 negli USA è stato stimato oltre 470 miliardi di dollari annui.
[3] Mary S. Mittelman, et al. Journals of Gerontology: Series
B, 59 (1): 27-34, 2004.
[4] Take Care of Yourself: How
Recognize and Manage Caregiver Stress. Alzheimer’s Association, 2016 (Cfr. www.alz.org/national/documents/brochure_caregiverstress.pdf).
[5] Michael Balint, The Doctor, his Patient and the Illness. Pitman Medical Publishing Co. Ltd., Londra 1957. Il volume fu pubblicato in Italia da Feltrinelli in numerose edizioni, a partire dal 1961, con il titolo: Medico, paziente e malattia.
[6] Sara Sanders in Social Work in Health Care 40 (3): 57-73, 2005.
[7] Il termine accudimento [dallo spagnolo acudir] è inteso nel senso di assistenza, cura, sorveglianza, secondo la definizione del dizionario Treccani.
[8] Francine Russo, The Givers. Scientific American Mind 27 (6): 28-37, November/December 2016.
[9] Joseph E. Gaugler et al. Effects of the NYU Caregiver
Intervention-Adult Child on Residential Care Placement. Gerontologist 53 (6): 985-997,
Dec. 2013.